Pubblicato su Cronache del Garantista venerdì 20 febbraio 2014 a nove anni dalla scomparsa di Luca Coscioni
Luca amava il mare, amava il vento, la sabbia della spiaggia, in particolare Porto Santo Stefano; amava veleggiare con il suo catamarano giallo verso l’isola del Giglio… lì, in quel mare, nove anni fa ha voluto che fossero disperse le sue ceneri…
Parlo di Luca Coscioni, mio marito, morto a trentotto anni, ucciso dalla sclerosi laterale amiotrofica. Gli era stata diagnosticata nel 1995, ha saputo resistere e lottare per ben undici anni, facendo del suo corpo malato e della stessa malattia uno strumento di iniziativa politica. Più la sofferenza lo attanagliava, lo soffocava, e più cresceva in lui l’anelito alla libertà. Mi ha lasciato, ci ha lasciato nove anni fa…Non so dire se siano molti o pochi, so che non c’è giorno senza che almeno per un momento un mio pensiero sia a lui dedicato.
Cos’è cambiato, in questi anni? Tutto, e insieme molto poco.
Un’intera classe politica è stata spazzata via; potenti che sembravano inamovibili sono stati messi all’angolo, sostituiti da personaggi di cui solo dieci anni non sapevamo neppure il nome; ci sono nuove organizzazioni politiche e da un Vaticano arrogante e prepotente siamo passati a un Pontificato che mostra un volto misericordioso…
Eppure se i “niet” tetragoni su quelli che venivano definiti “temi eticamente sensibili” non vengono più pronunciati come un tempo, le fondamentali questioni della vita e della morte, del come vivere e come morire, della libertà di ricerca, di come garantire dignità a malati e disabili, e sollievo alle loro famiglie, sono ancora lì, che attendono soluzione, attenzione, “regola”.
E continua, opprimente, la cappa di una informazione “scientifica” superficiale, monca, inquinante a tutti gli effetti.
Mi vengono in mente le parole che lentamente compitava con il suo computer, e via via prendevano la forma di messaggi politici che molti sentivano, ma che tanti lasciavano invece cadere: quando ci ricordò che aveva sempre cercato di sottolineare che “esiste la ricerca scientifica, la bioetica in laboratorio e la bioetica e la ricerca anche sulla propria pelle, e quest’ultima è troppo spesso dimenticata…”.
Quando agli stessi radicali che lo sostenevano e lo avevano eletto loro presidente, spiegò, perché ancora non ne avevano acquisito piena consapevolezza, che “per ogni successo di una nuova sperimentazione sull’uomo, c’è il duro lavoro di medici e di ricercatori, ma anche la disponibilità di cavie umane. Premesso che gli scienziati non sono certo dei folli ai quali imporre norme di comportamento etico, dal momento che il loro fine ultimo è quello di migliorare le condizioni di vita delle donne e degli uomini, l’eticità di ricerca non dovrebbe essere stabilita da chi non sa neanche come è fatta una provetta; bensì dagli scienziati stessi, nel rispetto della legislazione vigente”; e anche quando sentì il bisogno di ribadire che “in una società libera e democratica, le convinzioni personali sono poste tutte sullo stesso piano, perché non esiste una gerarchia delle Costituzioni etiche e delle Prassi. Questo dovrebbe essere il fulcro del Manifesto per la libertà di ricerca scientifica…”.
Ricordo anche inevitabili momenti di sconforto, come quando rifletteva che “uno scienziato credente in altro che nell’oro e nel potere avrebbe quanto meno delle difficoltà nel riconoscere la validità scientifica dell’equiparazione embrione-individuo. Certe volte penso di essere un imbecille nell’insistere con gli embrioni, la clonazione terapeutica, la libertà di Scienza e di Coscienza…”. Poi si riprendeva subito: “Se non io, chi dovrebbe farlo? Se non ora, proprio ora che tutto sembra perduto, quando?”.
Penso a una volontà indomabile rinchiusa in un corpo ogni giorno più fragile, all’obiettivo che si era posto: “Restituire mani e voce a chi mani e voce non ha oppure non può più utilizzarle o ancora utilizzarle solo con grandi difficoltà”.
Penso a come avesse compreso tutto dell’essenziale: “La comunicazione è vita. Privare una persona di questa facoltà non equivale a toglierle la vita. E’ molto peggio. Significa imprigionarla in un corpo che non ha più alcun senso di esistere. Se poi questo corpo è anche completamente immobile o soltanto parzialmente mobile, non poter comunicare diviene una vera e propria tortura psicologica e fisica”.
Da nove anni Luca è “altrove”, ed eccoci ancora a cercare di dare letteralmente “corpo” all’azione politica: questo è il segreto della politica radicale, vale per il tempo trascorso, per il presente e per il futuro: la centralità della persona con i suoi bisogni, con i suoi diritti; tutto ciò è al tempo stesso fondamento delle ragioni e del programma del nostro agire politico.
Mi vengono in mente due articoli, davvero belli, di una decina d’anni fa. Il primo di Francesca Angeli, su “Il Giornale”: Luca “alfiere radicale della ricerca libera, è stato un corpo politico”. L’altro di Filippo Ceccarelli per “Repubblica”. Ceccarelli descrive Luca come “quel corpo malato che è diventato un simbolo“; e aggiunge: “Nella cultura politica radicale, così povera di mezzi, ma così ricca di inventiva, il corpo è assolutamente tutto. Il corpo come straordinaria risorsa narrativa ed emotiva, tanto più nell’era dell’immagine. Il corpo come arma definitiva”.
Il corpo del malato che diventa simbolo e strumento politico. Così è stato con Luca, ma anche con Pier Giorgio Welby; e aggiungo: EmilioVesce, Bruno Tescari, Camillo Colapinto, Giovanni Nuvoli, GiannaGrasso Besostri, Rosma Scuteri; e oggi con Marco Pannella ed Emma Bonino, entrambi colpiti da tumori, ed entrambi che non dismettono il loro impegno per quello in cui credono, e ci invitano, se vogliamo loro bene a iscriversi proprio al Partito Radicale con il motto: “noi non siamo la nostra malattia”. C’è un filo rosso che lega tutte queste battaglie e tutte queste esistenze straordinarie.
E’ stata la battaglia per la libertà di ricerca scientifica a caratterizzare l’azione politica radicale; iniziative politiche di un passato recente, ma più che mai attuali: perché, per esempio, i divieti di sperimentazione scientifica sugli embrioni pongono l’Italia in una posizione di isolamento rispetto agli altri paesi, e non in linea con la stessa normativa europea. L’unica forza politica, in un’epoca di continua innovazione e conoscenza, che si fa carico di queste questioni, sono stati e sono i radicali: gli unici a dire che la ricerca pubblica deve ricominciare a lavorare, che occorre provare, testare, vagliare sul “campo”; e se lo si impedisce con pretesti demagogici e irrazionali il nostro Paese non potrà mai mantenere il passo con le altre realtà europee e mondiali.
Mentre scrivo mi passano davanti agli occhi le immagini struggenti di un grande film “La teoria del tutto” del regista James Marsh, meritatamente candidato agli Oscar; film tratto da un libro altrettanto bello, di Jane Wilde, moglie per 25 anni di Stephen Hawking, il celebre fisico e astrofisico inglese, colpito da sclerosi laterale amiotrofica. Un formidabile intreccio di amore, disperazione, speranza. Una mente, un cuore e un corpo, quello di Hawking che ha saputo superare i limiti del suo stesso male.
Luca, al contrario di Hawking, non ha avuto alcun premio od onorificenza, come la Presidential Medal of Freedom; credo non ci sia neppure una strada o una piazza a suo nome.
Per questo, in occasione del nono anniversario della sua scomparsa, voglio formalmente lanciare l’ “Istituto Luca Coscioni”.
Con amici che credono nei valori e negli obiettivi che erano di Luca, abbiamo cercato di capire se fosse credibile il progetto (e la sua realizzazione) di un luogo che consenta di approfondire la ricerca, la riflessione, l’impegno culturale, civile e politico incarnati emblematicamente dalla vita di Luca, per allargare le sue visioni e i suoi orizzonti.
Ci abbiamo pensato a lungo, e ci siamo detti che sì, la cosa va fatta.
E la prima iniziativa che intendiamo porre in essere è bandire un concorso in nome di Luca: “Premio Luca Coscioni”.
Abbiamo destinato una somma di denaro con la quale intendiamo premiare tre tesi di laurea o di dottorato, rivolgendoci a studenti e ricercatori universitari, che abbiano realizzato o stiano realizzando studi in tema di comunicazione pubblica della scienza e di corretta informazione e conoscenza scientifica.
Riteniamo infatti che ci sia necessità urgente di riflettere e dibattere sui reali rapporti tra scienza e potere, democrazia, partecipazione pubblica e operatori del mondo dell’informazione.
Ci sembra questo il modo migliore per ricordare Luca, il suo “metodo”, quello che ha cercato di fare e fatto.
Ciao, Luca.
Fonte: Il Garantista